(Commento ricevuto a cura della Dott.ssa Marianna Burlando – Psicologa, Psicoterapeuta Ser.D. Poggiardo ASL Lecce)
L’arte e la comprensione dei processi creativi che l’opera prodotta sottende (sia si tratti di un componimento – in versi, in prosa, con note su pentagramma – o di una tela dipinta) sono da sempre presenti nella psicanalisi, come teoria e come prassi.
Freud stesso si dedicò a indagare la relazione tra letteratura e biografie degli autori, a cercare connessioni tra i personaggi inventati e la mente di chi li produce. Per sondare la sua stessa psiche – nella sua autoanalisi – Freud si avvale di personaggi letterari, ad esempio la Gradiva di Jensen, Lady Macbeth, Riccardo III.
A più riprese, nelle sue opere, Freud stabilisce una continuità tra produzione artistica e talune modalità di funzionamento della mente, come i motti di spirito e i sogni.
Da Freud in poi, si può sintetizzare – consapevoli di comprimere la ricchezza delle argomentazioni e dei contributi che sull’argomento sono stati dati – che l’arte è vista come il ritorno del rimosso (S. Freud), come l’espressione fantasmatica del mondo interno e degli oggetti interiorizzati (M. Klein), l’elaborazione del pensiero pensante (W. R. Bion).
Al lavoro clinico è assimilabile la metafora delle produzioni creative, e Resnik alligna tra loro il phantasieren psicotico, artistico, scientifico. Nello spazio relazionale paziente/terapeuta è preminente “quello che il paziente non sa e neppure l’analista sa”; l’analista deve saper coltivare e mantenere la disponibilità a farsi attraversare dalla meraviglia, dall’inatteso, dal non ancora pensato che emerge nell’incontrare l’altro – inteso come sede della diversità, differenza, esogamia – per sostare con lo sguardo sull’abisso (il suo proprio, personale, e quello del paziente). Occorre avvicinare e gettare lo sguardo alle comunicazioni dirette e indirette dell’altro, quest’ultime al pari di elementi iconici che la mente presentifica ma dal significato non immediatamente accessibile al pensiero stesso. E, ancora, nello spazio relazionale di terapia, occorre saper tollerare l’incertezza, l’indistinto, tenere il pensiero in sospeso dando tempo alla creatività di venir fuori. E a tenere insieme, a contenere dal rischio di disperdersi e frantumarsi nell’abisso di cui sopra, ci sarà la parola “fluttuante” che si interroga, che mantiene aperta la ricerca tra dicibile e indicibile, tra sensorialità e pensiero a favorire costruzioni di senso, mai definite in assoluto, ma in continua ridefinizione e ampliamento.
La Notte stellata (maggio 1889) parte da un dato di realtà, la vista dalla camera dove il pittore si trovava, nella clinica psichiatrica di Saint-Rémy, in Provenza. Un dato di realtà che, con la tecnica pittorica (scelta dei colori, loro rilascio sulla tela, prospettive, elementi paesaggistici e naturali) approda a quello che van Gogh intendeva esprimere dipingendo. Pochi mesi prima del suo ingresso in clinica, scriveva: “Con un quadro vorrei poter esprimere qualcosa di commovente come una musica. Vorrei dipingere (…) con un non so che di eterno, di cui un tempo era simbolo l’aureola, e che noi cerchiamo di rendere con lo stesso raggiare, con la vibrazione dei colori” (Arles, 3 settembre 1888).
La Notte stellata si impone e cattura per il movimento dei cerchi, dei vortici che come aureole contornano le stelle. Lo spicchio di luna pare sole, e le stelle stesse sembrano tanti soli. C’è da chiedersi quanto giorno ci sia nella notte e viceversa. Una domanda, un pensiero che ne elicita altri in una concatenazione sensoriale, emotiva, dove aleggia la circolarità, la continuità ma anche gli opposti, come buio e luce, chiaro e scuro, stasi e movimento, quiete e peregrinazione. La scena di per sé è semplice, ritrae gli elementi base dei paesaggi – quasi fosse un disegno infantile: alberi, case, cielo, astri – e forse la potenza dell’opera è anche in questa primordialità, enfatizzata dalla plasticità dei tratti che fanno muovere i corpi celesti. Nuclei singoli, separati, forse in rotta di collisione per le volute e le spirali che si avvolgono su se stesse. Il pericolo di andare in pezzi – o di tentare di segnalare il già accaduto che rimane sospeso e incomunicabile, e per questo destabilizzante – se è un delirio, è un sogno fuori dalla scena. Compito dell’analista è impegnarsi nell’interprestazione, scegliere cosa tematizzare, su cosa dello spazio mentale di quella unica e specifica relazione di due psiche soffermarsi. Attraverso la delicata operazione di slegare la caoticità e il nebuloso, di connetterli nuovamente secondo altri nessi per conferire nuovi assetti sta l’arte dell’incontro, saper ascoltare, saper tacere, saper dire ricorrendo a quello che Resnik definisce il “linguaggio pittografico della mente”.
Di fronte al non pensato e all’inatteso, la parola sospesa si fa silenzio pensante, carico di tutta l’intensità, l’attenzione e la presenza (quell’esserci pienamente nella relazione).
Chiudo con una considerazione che dentro “listen” è compreso “silent”, e l’esperienza estetica al cospetto di un’opera è ascoltarsi in silenzio.